Se l’autostrada ci mette in crisi
Uno studio dell’Università di Bergamo conferma che di per sé le infrastrutture non portano lo sviluppo
Il rapporto tra infrastrutture e sviluppo rappresenta da sempre un binomio fisso, quando si tratta di parlare della valorizzazione di un territorio dal punto di vista occupazionale. Tant’è vero che, anche nel caso in cui la geografia sia favorevole, senza un’adeguata rete infrastrutturale e una logistica di conseguenza efficace, vi è il rischio forte che non si riesca a essere competitivi.
L’idea pare intuitiva. Anche nel caso della Bassa, pensando alle trasformazioni che sta subendo negli ultimi anni in virtù delle grandi opere che interessano il suo territorio. Secondo logica, se apro un nuovo tracciato autostradale, in corrispondenza dei caselli dovrei favorire gli insediamenti produttivi e di conseguenza l’occupazione. Allo stesso modo, sempre secondo logica, dovrei avvicinare quel territorio ai capoluoghi, renderlo più accessibile, favorire la conoscenza dei suoi prodotti e della sua offerta turistica. E anche in questo caso, grazie all’aumento della circolazione di merci e persone, dovrei favorire l’economia. Questo almeno è ciò che il cittadino pensa. Questo è ciò che probabilmente i sindaci e gli imprenditori della Bassa si attendevano.
Dallo studio dell’Università di Bergamo di cui il Corriere restituiva nei giorni scorsi una sintesi arriva però un invito alla cautela. Gli economisti ci dicono che la relazione tra infrastrutture e sviluppo non è automatica. Si tratta di un’affermazione di buon senso e di un invito a evitare il determinismo: la realtà è sempre più complessa di quanto non ci sembri di poter capire. Non è detto che sempre, a determinate cause seguano gli stessi effetti. Pure di buon senso ci pare l’altra affermazione, che osserva come la crisi presente sia strutturale: in buona sostanza, se non riparte l’economia anche le infrastrutture potrebbero non servire a invertire la tendenza occupazionale.
Tutto chiaro. E allora? Quel che al cittadino viene spontaneo chiedersi è proprio questo: quindi, che si fa? Se non servirà a far ripartire l’economia, a che è valso il sacrificio del territorio? La perdita degli ultimi tratti di campagna non servirà nemmeno a generare qualche posto di lavoro in più? Vale qui il ragionamento più generale che la crisi porta con sé. Quando se ne parla, si è soliti aspettarsi che prima o poi finirà, che alla fine l’economia dovrà ripartire. Sembra che non dipenda da noi, ma da altri: sembra che come ineluttabilmente la crisi è arrivata, così dovrà essere superata.
Qualche anno fa, due psichiatri francesi scrivevano un bel libro il cui titolo – «L’epoca delle passioni tristi» – alludeva alla crisi del nostro tempo: passioni tristi sono per Spinoza quelle passioni che dicono dell’impossibilità dell’uomo a fare qualcosa. Inducono al fatalismo, lasciano intendere che non possiamo farci nulla, solo aspettare che passi. Essi suggerivano che le passioni tristi si vincono solo ricominciando a desiderare. Il desiderio è immaginazione, è ritrovare la forza di un progetto, è credere di farcela. Le infrastrutture da sole, senza i desideri delle persone, credo proprio che non faranno ripartire nulla.
PIER CESARE RIVOLTELLA
Da Corriere della Sera – Edizione di Bergamo